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La grande riforma del federalismo

26/01/2009- Panorama Economy - Controvento

L’approvazione del federalismo fiscale(per ora al Senato) è un fatto storico, c’è poco da dire. E sono contento, da parlamentare di maggioranza, che sia avvenuta con il concorso, attraverso l’astensione, del Partito democratico. Anche grazie alla paziente opera di mediazione del ministro Roberto Calderoli, che ha dimostrato straordinarie capacità nel riannodare e mantenere vivo quello che sembrava destinato ad essere un dialogo fra sordi, il federalismo fiscale ora diventa legge.
Perché è così rilevante? Non solo perché si compie un percorso per ora solo di parole. Ma perché cambia la struttura dello Stato sul serio. La “grande riforma” era già uno dei punti cruciali nell’agenda di Bettino Craxi. Sin dagli anni Ottanta era evidente che la Costituzione italiana accusava lo scorrere degli anni. Su due fronti. La scarsa incisività del potere esecutivo, che non ha una risorsa di legittimità propria rispetto al Parlamento (l’assenza dell’elezione diretta del primo ministro). E un’articolazione territoriale che non lascia sufficiente autonomia ai governi locali, in un Paese che è storicamente pluralista: l’Italia delle cento città.
Questi due temi sono stati al centro di tutti i dibattiti degli anni Novanta, dai quali non è potuta sortire la grande riforma che ci aspettavamo. Se per Craxi era stato impossibile superare lo scoglio dei conservatori legati alla Dc (ma direi soprattutto a causa del Pci che non voleva lasciare a Craxi il merito dei cambiamenti), nella seconda Repubblica la durezza dello scontro fra destra e sinistra aveva ridotto in poltiglia l’unico tentativo serio, quello della Bicamerale, partorendo invece due riforme di scarso successo (il Titolo V e la devolution),  entrambe patrimonio di una sola parte.
Il governo ha imparato le lezioni del passato, e il federalismo è nato figlio di un accordo ampio, della convinzione finalmente diffusa che sia necessario dare sostanza all’assetto federale del Paese, costruito negli anni a spizzichi e bocconi. Si comincia un grande percorso, per una volta non sul terreno delle grandi idee, ma su quello delle cose.
La spesa storica: per raddrizzare le gambe ad una spesa pubblica diseguale sia nei costi sia nei risultati, nelle diverse Regioni della penisola.
In questi giorni, non sono mancate le critiche, anche ponderate, al progetto del governo. Si è detto che il federalismo fiscale sarà una riforma “post mortem” della legislatura: entrerà in funzione nel 2012. Questo è un commento ingeneroso: tale lasso di tempo è necessario per stimolare un opportuno adattamento della governance locale, e della consapevolezza degli amministratori. Come insegna il caro vecchio Adam Smith, nessuna riforma di successo può avvenire in un giorno. Il gradualismo è una strategia consapevole e accorta: se non si consente alle istituzioni di adattarsi, non si arriva lontano.
Altri hanno sottolineato come le poste non siano ben definite.  E’ vero. Il riallineamento della spesa storica, che è uno dei grandi vantaggi del federalismo fiscale, dovrà avvenire strada facendo. Come per il federalismo nella sanità, che ad oggi non si è ancora consolidato, ci vuole la pratica.
Il federalismo è una macchina complessa. Avvicinare il prelievo fiscale al cittadino ha senso per due motivi. In primo luogo, bisogna stimolare il controllo degli elettori sulla spesa pubblica. Come sul mercato chi paga pretende, così deve essere nel pubblico: il contribuente ha diritto a monitorare come i suoi quattrini vengono spesi. Ciò è difficilissimo, se i quattrini vengono incamerati e spesi da Roma. E’ più facile se il grosso del gettito dei lombardi resta in Lombardia, dei pugliesi in Puglia, e così via. Il federalismo fiscale votato da questo Parlamento ci avvicina a un sistema di questo genere, anche se non scioglie tutti i nodi.
Il federalismo affonda poi le sue ragioni nella necessità di stimolare una competizione virtuosa fra Regioni. Non c’è motivo per cui campani e lombardi debbano godere degli stessi servizi, fatta salva la garanzia di uno standard sotto cui non si deve scendere. Le azioni di contrasto alla povertà necessarie sono differenti, le aspettative dei cittadini sono diverse, la forza del settore privato e quindi il suo grado di complementarietà col pubblico non è la stessa.
Bisogna superare il criterio della spesa storica, arrivando a dei costi ottimali che valgano come parametro per tutti: una base sulla quale, poi, le Regioni che possono e vogliono decidano eventualmente di andare oltre i “minimi”. Il ruolo dello Stato centrale è quello di garante. Come per i “lea”, i livelli essenziali di assistenza del servizio sanitario nazionale. Bisogna tracciare una linea, sotto la quale nessuno possa andare. Ma dare alle Regioni la possibilità di differire, di svilupparsi nel modo più armonico possibile con le ambizioni e le aspirazioni di chi ci vive. Lo abbiamo chiamato federalismo fiscale. Ma c’era anche un altro nome. Democrazia. Proprio così. Federalismo fiscale = democrazia fiscale = democrazia.