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L’efficienza nel governo dell’impresa

12/01/2009- Panorama Economy - Controvento

Con una indagine conoscitiva, il cui prodotto è un lunghissimo rapporto assai minuzioso e accurato nella sua descrizione della morfologia del capitalismo italiano, l’Antitrust di Antonio Catricalà è tornata su una sua vecchia denuncia, ma sempre attuale. Sono troppi, in Italia, gli “intrecci” che affievoliscono le pressioni competitive. Intrecci vuol dire persone che vengono nominate due, tre, quattro, cinque volte all’interno della stessa impresa o delle sue controllate, in posizione dirigenziale.
Gli economisti parlano di “interlocking directorates” quando, nel consiglio di amministrazione di imprese concorrenti, stanno le stesse persone. Il fenomeno è sgradevole. Da una parte, dà l’impressione che un Paese intero, l’Italia sia controllata da un ristretta cricca di presenzialisti della finanza. Dall’altra, la possibilità concreta che un consigliere d’amministrazione faccia l’Arlecchino servitore di due padroni.
E’ vero che c’è caso e caso. C’è anche la moltiplicazione delle poltrone, a vantaggio di pochi individui, nello stesso gruppo. Magari un responsabile delle relazioni istituzionali bravo e vicino al top management, viene “compensato” per le sue fatica facendolo amministratore di un paio di subsidiaries. C’entra il merito o la fedeltà? Chi può dirlo, ma a seconda della risposta viviamo in un Paese dove le carriere sono aperte ai talenti, o viceversa in una Italia dove si fa carriera solo per obbedienza. Lo stesso ci si può chiedere, riguardo a quel manipolo di professionisti che inanella presenze nei board di imprese di primissimo piano. Sono davvero i più bravi e competenti del paese, o magari è gente abituata a dir di sì alle proposte dei manager, con cui sono compagni di circolo del bridge, e proprio per questo viene scelta per stare nel massimo organo dirigenziale di un’impresa?
La corporate governance è importante perché ne va dell’efficienza dell’impresa e del sistema. Nella tolda di comando, in azienda come altrove, si accede per cooptazione da parte del board, o elezione da parte dei soci. Ciascuno dei due sistemi ha i suoi meriti: ma essi non possono venire in superficie se non in un contesto di grande trasparenza e, quel che più conta, nel quale occupare una posizione di “director” non esecutivo serve per mettere competenze a vantaggio dell’azienda.
Ma non sono solo gli intrecci personali, quelli di cui s’è occupato l’Antitrust. Sono soprattutto quelli societari, tema estremamente sensibile nell’ambito del settore bancario. Ricordiamo tutti la legge Amato, che aprendo la strada alle privatizzazioni voleva liberare la “foresta pietrificata” degli anni Novanta. Allora la più parte delle nostre banche era pubblica, e la proprietà statale creava inefficienza nel sistema. Con la privatizzazione, si diedero a istituti di credito di diversa taglia, diversi sistemi di governance. Li si incentivò a fondersi e consolidarsi, come ricordava (prendendosene il merito) l’ex governatore Fazio in una intervista ad Avvenire.
Il risultato è, oggi, un sistema molto concentrato ma nel quale la concentrazione non ha portato alla chiarezza. Siamo passati dalla foresta pietrificata alla jungla consolidata. Abbondano le scatole cinesi e i patti di sindacato, e gli azionisti fanno di tutto per non mollare il controllo degli istituti di credito. Siamo riusciti a privatizzare senza creare un mercato dei diritti di proprietà: cosa gravissima.
Il perno di questo sistema perverso, di questa jungla piena di liane che s’intrecciano e rendono impossibile muoversi, sono le fondazioni di origine bancaria. La governance di questi enti è opaca per definizione, perché essi sono un po’ privati un po’ pubblici. Ma la morsa politica si fa sentire più forte, di recente, con sindaci e presidenti di provincia che parlano senza pudore dei presidenti da essi stessi nominati, per fini che sono i loro.
Non c’è settore in cui l’intreccio fra politica e credito è così evidente, e perverso. Le fondazioni dovrebbero essere l’equivalente italiano dei grandi investitori istituzionali, quelli che in America sono i fondi pensione o gli endowments delle università. Investitori di lungo periodo, interessati a ritorni buoni ma poco rischiosi.
Invece le fondazioni diventano navicelle da cui cercare di controllare l’andamento della banca di cui sono azioniste, condizionarla nelle nomine, trovare spazio per il potere locale in quelle scelte. Certo, ammette l’antitrust, hanno dato “stabilità” - e la stabilità è preziosa, soprattutto oggi. Sta bene, ma la stabilità talora vuol dire anche immobilismo. E magari non oggi, magari non domani, ma l’immobilismo il suo conto lo presenta sempre.